La testa del bambino Kevin oscilla come quella di un cavallino a dondolo. Ha 12 anni, ma pare un figlio arrivato dall’aldilà.
lo è.
Non una parola, solo un sorriso triste e due occhi imploranti di vita. Suo padre Murvete, 15 anni fa, ha ammazzato un uomo del villaggio di Puka nelle montagne incantate dell’Albania. Da allora Kevin con tutta la famiglia è prigioniero della sua stessa casa. Mai visto il cielo. Mai corso su un prato. Mai andato a scuola. Li chiamano i bambini pallidi. Almeno 800 piccoli murati vivi e condannati a pagare le colpe dei padri.
Il loro carnefice si chiama kanun: «Chi uccide sarà ucciso per vendetta dalla famiglia “offesa”» recita quel codice di 300 anni fa che il comunismo aveva zittito, ma che oggi pare tornato a comandare. «Quell’uomo voleva a tutti i costi la sorella di mio marito. Ma faceva il trafficante di ragazze e l’avrebbe venduta»: Gerzim, madre di Kevin, parla per tutta la famiglia. «Allora siamo andati alla polizia, abbiamo supplicato quell’uomo di lasciarla. Invano. Finché una notte ha cercato di rapirla. Così mio marito è diventato un assassino. Ha scontato tutta la sua pena, ma dal giorno in cui è libero nessun maschio può uscire di casa, altrimenti per la legge della vendetta verrebbe ucciso».
Oggi Gerzim è l’unica a uscire, a cercare aiuto, a lavorare. La famiglia vive dell’elemosina dei vicini. Null’altro. Lei non sarà mai uccisa, la sua vita di donna vale troppo poco. E Kevin? «Kevin non ce l’ha fatta. Stare sempre da solo, come un cane alla catena, l’ha reso ritardato». Ma Kevin non è un bambino ritardato: è solo ammalato di solitudine. Gli sarebbe bastato essere il bambino che non è mai stato. Oppure basterebbero cure mirate.
Lascio la casa. La famiglia intera affacciata alla finestra. Una finestra fatta per sparare più che per guardare.
È l’Albania dei contrasti. Da una parte un paese che chiede di entrare in Europa, perché la sua economia galoppa (il pil è cresciuto del 13 per cento rispetto a due anni fa), perché vorrebbe essere così «moderna» che il presidente Sali Berisha ha promesso una legge sui matrimoni gay. Perché Tirana è così bella da meritarsi il nome di «piccola Parigi dei Balcani». Ma dall’altra è un paese che non riesce a liberarsi dalla violenza, dalla miseria e dalla barbarie. I più fragili e poveri (vecchi, donne e bambini) soccombono. Ma se non c’è giorno in cui i giornali di Tirana non raccontino di atrocità sulle donne, nessuno più della femmina albanese tiene in mano l’anima di questo paese. La donna, soprattutto, è la grande musa del cambiamento.
Nelle stanze dell’Associazione delle donne, coperte dalle foto di femmine felici e infelici, Savim Arbanà e Fabiola Ergo, famose critiche letterarie, hanno fatto della loro esistenza una guerra contro la violenza alle donne. È un’autentica epidemia di persone picchiate, torturate e uccise. «Almeno sei casi al giorno. Una moglie violentata in Albania è stretta fra due morse: la famiglia che l’abbandona e il marito che la terrorizza. Se la polizia non indaga davvero, e se i giudici si fanno corrompere, come spesso accade, noi diventiamo confessori, avvocati e, perché no, anche detective» dice Fabiola Ergo, chioma nera e bocca di rosa, mentre mostra il manifesto con i casi più atroci. Il più agghiacciante è quello di Enrieta, businesswoman trovata a pezzi nella spazzatura della sua stessa casa. Primo sospettato il marito. Peccato che il brav’uomo fosse anche il capo della polizia criminale di Tirana e che per questo sia stato sospeso dall’incarico, rimanendo naturalmente uomo libero.
La violenza sulle donne in Albania è un’attrice trasversale. Frequenta case misere come gli alti palazzi. Rodina, povera ragazza del nord, era letteralmente prigioniera del marito, pazzo e violento: «Aveva addirittura murato le mie finestre: se mi affacciavo, ero una puttana. Un giorno mi ha quasi ammazzata davanti a loro. Quando mi sono svegliata nel sangue la mia bambina mi ha detto: mamma, lasciamo quest’inferno e io sono venuta qui». Rodina non ha voluto che cambiassi il suo nome, né ha voluto coprirsi il volto, «per dire alle donne dell’Albania che vinceremo solo battendo la paura. Parlate, vi prego».
Arriva il capitano della nave delle donne. È Savim Arbanà, scrittrice dai capelli rossi come la mantella di un cardinale: «Ormai siamo un network di donne invincibili: associazioni, club e volontarie. Dopo 50 anni di orrore sotto il comunismo, abbiamo scelto di essere liberi. La libertà in questo paese ha un prezzo alto: la violenza, l’analfabetismo, la fame. Ma ce la faremo. L’Albania di oggi non è ancora quella che sogniamo per domani, ma permetteteci di conquistarci i nostri sogni e ingoiate i vostri pregiudizi sull’immigrazione degli albanesi tutti assassini».
Savim è un fiume in piena: «Perché non parlate mai della nostra immigrazione selvaggia? Sì, quella dei poveracci montanari del nord. Solo qualche anno fa Tirana aveva un quinto dei cittadini di oggi. Adesso siamo invasi da noi stessi. Li chiamano “i ceceni”. Come i selvaggi, come i barbari.Vengono da paesi sperduti fra le montagne e si portano dietro tradizioni e leggi medioevali». È vero che una donna del nord perseguitata dal marito orco ha vissuto un mese nella foresta con i figli mangiando terra, radici e scarafaggi? «Verissimo. E sa qual è stata la grande concessione del giudice? Il divorzio».
Tirana dei negozi al Block, quartiere di moda, è una nuvola di vetrine: stivali di porporina, pizzi, jeans e baretti fitti di giovani che fumano. Al parco però certi bambini sono gettati nudi sull’erba. Come stracci si vendono ai farabutti stranieri. Insieme a loro batte un ragazzo rom. Mai visto un travestito più drammatico: fondotinta sbavato sulla barba lunga e la parrucca di stoppa delle bambole. Piange. Non ha casa né altro: «Siamo la feccia di questa terra: picchiati, derisi, ammazzati. A uno come me hanno staccato la testa di netto. Aveva solo 16 anni. Ci aiuti: farei qualunque lavoro. Ho fame».
Violenza e fame si incontrano anche nei quartieri spazzatura di Tirana. Al Kinostudio, vecchia Cinecittà del comunismo, in un palazzo fogna che si arrampica per cinque piani incontro Syana. Questa madre di famiglia sta per diventare cieca. È nel panico: «Se perdo gli occhi, chi penserà alla casa? Chi ai figli?». Non è l’unica disperata.
Nell’accampamento rom raccontano che un piccolino è stato divorato dai topi come
un pezzo di formaggio vecchio. Dentro la baracca di latta quattro bambine rom coi capelli a nido di rondine ci accolgono festanti. I bambini guardano alla vita. Non così il padre, tossicodipendente: racconta che nell’incendio della sua baracca la quinta figlia è morta bruciata, carbonizzata. Ma è una menzogna.
I bambini rom, quasi mai iscritti all’anagrafe, sono ombre pronte per essere vendute senza lasciare traccia. Per questo i volontari di Save the children e quelli delle associazioni partner con sede a Tirana lavorano perché i figli dei poveri siano iscritti all’anagrafe come tutti gli altri bambini. Ma anche portati a scuola, curati e nutriti. «È l’unico modo per aprire la porta della vita a questi piccoli sfortunati» dice Klara Dajsi, una delle volontarie. «La scuola fa di questi bambini esseri liberi: dal dolore e dalla miseria».
Ci sono donne che per vivere libere in Albania hanno dovuto rinunciare a se stesse. Vendere il loro destino. Diventare uomo, diventare «burnesh», cioè vergine giurata. Lo vuole una tradizione incantata delle montagne fra il Kosovo e l’Albania che chiede a certe donne castità infinita per conquistarsi l’onore di essere maschio. Di vestirsi, di armarsi, di combattere, ma anche di fumare e di bere alcol, lussi proibiti alle donne.
Come Qamile Stema, quasi 90 anni. Per arrivare da lei nel villaggio di sei case di Barcalesh, dopo la città di montagna di Kruya, bisogna camminare sulla mulattiera a picco sulle rocce bianche. Sulle cime dei monti azzurri volano le aquile: è come assistere al primo giorno della creazione. Si arriva al villaggio di notte e purtroppo Qamile è malata. Ma un vero uomo non conosce la febbre. Così quel folletto con il cappellino bianco e l’orologio nel taschino offre quel poco che ha. Sulla sua faccia le rughe disegnano una vita dove la fusione dei sessi è perfetta e inquietante. Forse nemmeno lei sa più chi è. «Mia madre ha avuto nove figlie. Io ero l’ultima e volevo rimanere a casa con lei» racconta sorseggiando rakja, la grappa locale. «Ma una donna non sposata era la vergogna. Così una mattina ho giurato verginità e mi sono trasformata in un uomo. Come un vero guerriero ho fumato, ho imparato a usare le armi, ho fatto paura agli ingiusti. Non ho mai ucciso, però, questo no».
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Qamile Stema, 89 anni, una delle vergini giurate,le «donne-uomo», che con la castità perenne conquistano il diritto di comportarsi come i maschi. |
Donne prigioniere della tradizione, figlia delle viscere di questa terra e donne libere di prendersi il successo. L’Albania è un paese dalle mille facce. Nello studio televisivo di Top Chanel, Rudina Xhunga, giovane stella del giornalismo televisivo albanese, ospita in questa sua puntata di Shqip Arlinda Hovi Dudaj, famosa e bellissima editrice, e Dalina Buzi, padrona e direttore (così si fa in Albania) di Anabel, il mensile femminile più venduto. Incredibile! Se non fossimo a Tirana, sembrerebbe di essere dentro uno studio a Roma o a Milano. Tema: i nuovi talenti dell’editoria italiana, Paolo Giordano e Fabio Volo. Insieme alla fame di nuova scrittura, si parla di Roberto Saviano e di Daria Bignardi, della Mondadori e della Bompiani. La trasmissione è interessante, colta e attraente. Giornalismo eccellente che scopre per l’Italia un’amorosa e struggente conoscenza.
«L’Italia è il nostro specchio, il desiderio e il modello» dice Rudina. «È una vicinanza che sentiamo profondamente senza molta corrispondenza da parte vostra». La giornalista sa quello che dice: «La crisi dell’Albania non è solo povertà, è crisi d’identità, è dolore dell’esistenza, è l’impotenza davanti a orrori ignobili».
Le donne salveranno l’Albania? «Le donne sono l’Albania» risponde. «Ma le nostre donne politiche fanno ancora i ventriloqui dei maschi di potere. Quando parleranno come farebbero con i loro figli o con gli amanti, l’Albania avrà vinto la sua scommessa. Vuole sapere di donne? Vada dal sindaco di Tirana. Lui che è un vero uomo ha voluto la sua municipalità solo al femminile». Attraverso piazza Skanderbeg, dribblo il Teatro dell’Opera ed ecco il municipio. Il pittore Edi Rama, oggi sindaco, quasi 2 metri di bell’uomo, ha voluto la sua Tirana colorata come una città sudamericana. Per questo ha fatto dipingere di rosso e arancione i palazzi troppo mesti della capitale. Per questo ha disegnato un viale alberato su un’intera fila di case orfane di verde. Il suo ufficio è quello dell’uomo che non ha paura di restare bambino: pennarelli colorati dovunque, icone pregiate, ma anche fotografie di cuccioli.
Tirana disegnata su pareti e colonne. «Non so quante donne lavorano con me, ho perso il conto. Le donne sono esseri del fare e non del dire. Quando una delle nostre diventerà primo ministro, ce l’avremo fatta».
Stella Pende