martedì 9 maggio 2017

Lettera di un uomo


Mi chiamo Edoardo, ho 32 anni e faccio il benzinaio
Mia madre Enza era professoressa di fisica e mio padre Ugo un avvocato con un hobby speciale che ci stroncato la vita. Giocava. Poker, Gin Ramin e poi scommesse sui cavalli, sui pugili e sui topi. Una malattia terminale. Mia madre ha venduto le spille della nonna e pagato strozzini killer. Invano. 
Quando avevo 13 anni Ugo ha perso il lavoro perché  affondato in una cattiva depressione. Mia madre lavorava come una schiava facendo ripetizioni fino all’alba. Unica consolazione: i miei successi a scuola. Così, mentre Ugo passava da un elettrochoc all’altro, arrivo alla fine del liceo con un sogno. Avrei fatto l’avvocato. La mia rabbia era diventata fame di giustizia. Per tutti i giusti, spesso troppo umiliati da un Italia che premia il mascalzone furbo, come scriveva Marco. 
Finito il liceo per pagarmi l’Università ho fatto il commesso e pure lo sputa fuoco ai semafori. Ma la laurea è stata una festa. Ugo pareva un padre normale. Mia madre piangeva felice. Gli amici stappavano il Ferrari. Il dopo, però, è stato tutto un rotolare nel dolore e nel fango. Un cancro al pancreas mi ha portato via la mamma in 3 mesi. Ugo senza di lei ha perso 22 chili. Io ho perso il bene più grande. Intanto cercavo lavoro. Annunci, Internet, curriculum a studi legali che, non essendo il cugino di Tronchetti Provera, mi rimbalzavano. Finalmente un avvocato di Novara mi accoglie. “Non ti posso pagare troppo, ma cerca di capire l’andazzo per sei mesi  e poi vediamo”
Ho capito molto bene l’andazzo della fotocopiatrice e mi sono piegato a qualunque bassezza per settecento euro al mese. Ma non partecipando a riunioni né a cause non potevo brillare. 
Fatalmente: mi dispiace. Non ce la faccio ad assumerti. Grazie per la disponibilità.
Insomma, come fanno con molti precari, mi avevano usato come fattorino e poi un calcio nel deretano. Quello è stato il primo pugno della vita. 
Ne sono seguiti troppi. A 28 anni ero pieno di lividi nell’anima. Di no si muore, ha ragione Marco. La verità è che se vuoi lavorare devi essere bravo, ma anche raccomandato. E poi a me è mancato quel pizzico di culo che non guasta. Ugo stava male. In Italia ti aiutano se hai il cancro terminale. Se hai una malattia da ricchi, come la depressione, e sei pure povero, muori da solo. Tornavo di sera e lo trovavo con la bava alla bocca. Allora fingevo malattie che mi costavano regolarmente l’allontanamento dai lavoretti trovati. Inutile raccogliere ogni dettaglio della mia Odissea. Forse è vero: a 25 anni punti al massimo e ogni giorno ti ritrovi a patteggiare col minimo. 
In principio ti intestardisci: non accetti briciole dalla vita. Non permetti che la tua giovinezza venga umiliata. Poi cominci a raccontartela su’. Ti dici: finché c’è Ugo accetto di fare il tassista a cottimo poi diventerò Perry Mason. Per ora meglio fare il commesso dal ferramenta perché  vai a casa a mangiare. Capita perfino che tu faccia il benzinaio a ore per andare da lui con i guanti per nascondere le mani accartocciate dal gelo. 

La fine di Marco è lo specchio, banale ma lo è, della disfatta di tanti giovani non più giovanissimi come noi. Perché non ci sono solo sette anni tra i 25 e i 32 di un ragazzo. Ma venti. A 25, quando finisci l’Università sei una giovane pianta che aspetta di fiorire. A 32 anni, dopo decine di sconfitte, ti fanno sentire un tronco secco. La colpa di chi è? Di un paese che non offre futuro ai ragazzi, di una società, come scrive quel nostro fratello , che ti ruba la felicità? Anche. Per questo non ho dormito davanti a quella lettera.  Ma alla fine mi sono detto: perché non ho incontrato Marco? Perché non ho potuto parlargli, abbracciarlo, dividere umiliazioni e sogni spezzati? Ma soprattutto ho rimpianto di non avergli raccontato la mia lotta quotidiana per non cancellare il futuro. Perché uno come lui, che scriveva come Pasolini, che soffriva come le anime grandi, doveva incontrare, prima o poi la giustizia. Nessuno ci può costringere a sopravvivere. Ma noi dobbiamo pretendere di vivere. Perché è il nostro diritto. Perché a 30 anni si ha il diritto a un miracolo. E adesso che Marco se n’è andato per noi, non ci consoliamo nelle dichiarazioni dei presidenti di regioni e di sindacati. 

Non ci arrendiamo. Gli italiani non sono solo maneggioni. 
Un’Italia diversa è possibile? Io non smetto di crederci. 
E domani, con i guanti, andrò al mio trentaduesimo colloquio nello studio dell’avvocato X senza guardare indietro a quel ragazzo infelice che non voglio essere.

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