domenica 28 maggio 2017

Arriva Confessione reporter Incontri

Anni  e anni passati tra guerre, pestilenze e dolore. Incontrando uomini donne e bambini invisibili. Perché nessuno sa che esistono e nessuno conosce la loro sofferenza. 

Anni, cercando di dar voce ad eroi del bene che regalano la loro esistenza a chi soffre, sopportando perfino l’onta di chi li accusa di guadagnare sullo strazio della gente. 

Anni di illusioni. Quelle di aprire una finestra sul mondo appannato, anzi buio. Perché l’Africa, la Siria e l’Iraq, cioè il Medio Oriente dei poveracci non interessano quasi più a nessuno. Ma anche un tempo di felicità piena. Travolta e dedicata  a questo mestiere che ti apre mondi e verità che mai vedresti, che ti porta infondo alle ragioni e ai torti  della storia. Che diventa, rimane e rimarrà per sempre la tua vita. 

Anni, gli ultimi, dedicati alla comprensione del nuovo terrorismo arrivando dopo tante inchieste a capire che di un ragazzo kamikaze di 20 anni che  ammazza  quasi trenta bambini, non potrai mai capire nulla. 

E tra un viaggio e un’avventura che ti resta addosso come una memoria indelebile tornare a casa, dai tuoi figli. Cominciare a respirare di nuovo quella che si chiama la normalità. E cercare di ritrovare il filo degli avvenimenti. Guardare la televisione. Cercare le trasmissioni che ti riportano a oggi, ai fatti e ai nuovi eventi del tuo paese affidandoti ai grandi cronisti dell’informazione televisiva. Ai tuoi preferiti, quelli che vorresti essere, ma anche a quei colleghi che raccontano la realtà usando un palcoscenico più spettacolare perché senza di loro, diciamolo, la politica e la cronaca sarebbe davvero di pochi. 

Così e per questo nasce Confessione Reporter Incontri. Perché dopo aver raccontato nei miei reportage il cuore e il senso del mio mestiere ho sentito il bisogno di capire e di far capire il lavoro degli altri. Dei grandi giornalisti televisivi. Degli infrangibili intervistatori militanti delle news tv. Grandi e grandissimi. Ma tutti diversi. 

Ho cercato di preparare una macedonia di varie professionalità: dall’imperatore dell’attualità Bruno Vespa  alla domatrice delle emozioni Barbara D’Urso. Da Corrado Formigli che va a Mosul incontrando i terroristi dell’Isis per poi atterrare lo stesso giorno nel suo studio de La7, a Bianca Berlinguer, unica donna ad essersi guadagnata la prima serata di Rai 3. Dal maratoneta delle news Enrico Mentana, che ha parlato del giornalismo e dei giovani, ma anche dell’amore e della nostalgia per il passato, fino all’incontro col campione pop di ascolti della domenica di Rai 1, Massimo Giletti.
E Massimo, sorpresa, non ha confessato i suoi dubbi e le verità sulla Rai, ma ha anche ricordato quei piccoli bambini che incontra a Lourdes tutti gli anni. E ha pianto.  


Stella Pende

mercoledì 17 maggio 2017

Cani da soccorso


Parevano davvero tre nuvole col naso quei 3 cuccioli affiorati dalla neve che ha ingoiato l’albergo Rigopiano. I carabinieri forestali con i vigili del fuoco hanno dovuto distruggere un muro per salvare quei canetti, orsi bonzai, attaccati uno all’altro accanto alla caldaia nelle cantine. Li hanno stretti sorridendo in quella giornata buia di buone notizie. Poi li hanno portati ad incontrare i loro genitori Lupo e Nuvola, due pastori abruzzesi, giganti della montagna e mascotte dell’hotel che, misteriosamente, sono riusciti ad arrivare a valle poco dopo la tragedia. 
Vi chiederete come è possibile scrivere di cani, quando decine di vite di uomini e donne sono ancora affondate nel ghiaccio. Quando tante famiglie, travolte da questo terribile lutto, piangono i loro amati o aspettano disperate notizie di padri e figli? Come si può occupare di animali, una giornalista che fruga nel dolore dei dimenticati del mondo? ...Eppure ho suggerito questo articolo perché mi pare giusto sapere finalmente quanto è valoroso e importante il lavoro che certi cani fanno per restituire la vita a uomini, donne e bambini in Abruzzo e dovunque nel mondo. Quanti successi nei ritrovamenti di disastri naturali, di terremoti e di valanghe, quanta fatica e dedizione si deve a loro.  Proprio loro di cui parliamo magari per condire il nostro articolo denso di vero dolore con “una nota” di colore. 
Sulle rovine dell’hotel Rigopiano, Corto, Diana, Laika e Sally sono arrivati con  le squadre delle unità Cinofile del Centro del Soccorso Alpino. Lì, dal primo momento, uomini e cani hanno lavorato nel gelo per notti e giorni senza fermarsi. I cani hanno indicato spesso il luogo giusto, quel pezzo di neve esatto che nascondeva tanti metri più sotto una donna o un bambino che continuavano a sperare nella vita. 

Le rovine dell'hotel Rigopiano dopo la valanga del 18 Gennaio 2017


“Loro fiutano. Noi scaviamo" Matteo Gasparini, responsabile del soccorso alpino della Valdossola, lo ha detto sincero, perché sa che questi eroi a 4 zampe possono fiutare una vita fino a 5 metri di profondità. Perché sa che il lavoro nobile e coraggioso dei suoi colleghi è stato aiutato dai loro amici pelosi. Sa quante persone sopravvissute sono state estratte grazie a loro. 
Vengono da addestramenti molto impegnativi questi cani. Le scuole che formano le unità cinofile sono specializzate nella ricerca in superficie, nelle valanghe e nella ricerca di persone disperse. “Quando un cane ha fiutato la presenza di un sopravvissuto ha comincia a girare su sé stesso, a scodinzolare e a impazzire dalla felicità” ha raccontato un amico dei vigili del fuoco. Queste scuole altamente considerate fondano il loro valore nel rapporto tra l’uomo e il cane che diventa simbiotico e infrangibile. L’animale serve il padrone con felicità, il suo è un darsi totale. Mesi e mesi di addestramento finché il peloso può muoversi in terreni inagibili in totale sicurezza e destrezza. 

Bretagne e la sua padrona Denise a Groud Zero
dopo gli attentati dell'11 Settembre
La storia delle unità cinofile arriva dal lontano 1960. In quei giorni nei pressi di Salda, Alto Adige, “un meticcio qualunque” di nome Mohrele, cane di una famosa guida alpina del luogo guaisce e gira in tondo sul luogo dove un anno prima è arrivata una valanga. Il padrone decide di scavare e trova il corpo del parroco del posto che tutti cercavano da tempo. Da lì al 1968 quando si celebra il primo concorso nazionale per cani da valanga. Ma ci vorranno ancora vent’anni perché le unità cinofile vengano riconosciute a livello nazionale. Del resto Rigopiano non è certo il primo palcoscenico dove questi amici dell’uomo e della vita hanno fatto la loro parte di protagonisti. Li ho visti scavare senza sosta e con le zampe ferite dopo il terremoto dell’Aquila e dopo quello di Amatrice. E come dimenticare il coraggio di Bretagne, il Golden Retriver che dopo la caduta delle Torri Gemelle ha scavato a Ground Zero dieci giorni accanto alla sua istruttrice Denise Corliss salvando decine di vite? E ancora Ricky, una montagnetta di peli ricci, che in India dopo il terremoto orrendo del Gujarat, proprio davanti al pianto di noi giornalisti, ha tirato fuori dai crateri della terra un bambino di 4 anni stretto al suo collo. 
Oggi i cani della valanga lavorano ancora accanto all’eroismo dei soccorritori. 

Oggi nell’era della gloria tecnologica, la generosità di un cane resta ancora la possibilità e la speranza di salvare una vita.      

Stella Pende

sabato 13 maggio 2017

Albania salvata dalle donne

La testa del bambino Kevin oscilla come quella di un cavallino a dondolo. Ha 12 anni, ma pare un figlio arrivato dall’aldilà. 
lo è. 
Non una parola, solo un sorriso triste e due occhi imploranti di vita. Suo padre Murvete, 15 anni fa, ha ammazzato un uomo del villaggio di Puka nelle montagne incantate dell’Albania. Da allora Kevin con tutta la famiglia è prigioniero della sua stessa casa. Mai visto il cielo. Mai corso su un prato. Mai andato a scuola. Li chiamano i bambini pallidi. Almeno 800 piccoli murati vivi e condannati a pagare le colpe dei padri. 
Il loro carnefice si chiama kanun: «Chi uccide sarà ucciso per vendetta dalla famiglia “offesa”» recita quel codice di 300 anni fa che il comunismo aveva zittito, ma che oggi pare tornato a comandare. «Quell’uomo voleva a tutti i costi la sorella di mio marito. Ma faceva il trafficante di ragazze e l’avrebbe venduta»: Gerzim, madre di Kevin, parla per tutta la famiglia. «Allora siamo andati alla polizia, abbiamo supplicato quell’uomo di lasciarla. Invano. Finché una notte ha cercato di rapirla. Così mio marito è diventato un assassino. Ha scontato tutta la sua pena, ma dal giorno in cui è libero nessun maschio può uscire di casa, altrimenti per la legge della vendetta verrebbe ucciso».
Oggi Gerzim è l’unica a uscire, a cercare aiuto, a lavorare. La famiglia vive dell’elemosina dei vicini. Null’altro. Lei non sarà mai uccisa, la sua vita di donna vale troppo poco. E Kevin? «Kevin non ce l’ha fatta. Stare sempre da solo, come un cane alla catena, l’ha reso ritardato». Ma Kevin non è un bambino ritardato: è solo ammalato di solitudine. Gli sarebbe bastato essere il bambino che non è mai stato. Oppure basterebbero cure mirate.
Lascio la casa. La famiglia intera affacciata alla finestra. Una finestra fatta per sparare più che per guardare.



È l’Albania dei contrasti. Da una parte un paese che chiede di entrare in Europa, perché la sua economia galoppa (il pil è cresciuto del 13 per cento rispetto a due anni fa), perché vorrebbe essere così «moderna» che il presidente Sali Berisha ha promesso una legge sui matrimoni gay. Perché Tirana è così bella da meritarsi il nome di «piccola Parigi dei Balcani». Ma dall’altra è un paese che non riesce a liberarsi dalla violenza, dalla miseria e dalla barbarie. I più fragili e poveri (vecchi, donne e bambini) soccombono. Ma se non c’è giorno in cui i giornali di Tirana non raccontino di atrocità sulle donne, nessuno più della femmina albanese tiene in mano l’anima di questo paese. La donna, soprattutto, è la grande musa del cambiamento.

Nelle stanze dell’Associazione delle donne, coperte dalle foto di femmine felici e infelici, Savim Arbanà e Fabiola Ergo, famose critiche letterarie, hanno fatto della loro esistenza una guerra contro la violenza alle donne. È un’autentica epidemia di persone picchiate, torturate e uccise. «Almeno sei casi al giorno. Una moglie violentata in Albania è stretta fra due morse: la famiglia che l’abbandona e il marito che la terrorizza. Se la polizia non indaga davvero, e se i giudici si fanno corrompere, come spesso accade, noi diventiamo confessori, avvocati e, perché no, anche detective» dice Fabiola Ergo, chioma nera e bocca di rosa, mentre mostra il manifesto con i casi più atroci. Il più agghiacciante è quello di Enrieta, businesswoman trovata a pezzi nella spazzatura della sua stessa casa. Primo sospettato il marito. Peccato che il brav’uomo fosse anche il capo della polizia criminale di Tirana e che per questo sia stato sospeso dall’incarico, rimanendo naturalmente uomo libero.

La violenza sulle donne in Albania è un’attrice trasversale. Frequenta case misere come gli alti palazzi. Rodina, povera ragazza del nord, era letteralmente prigioniera del marito, pazzo e violento: «Aveva addirittura murato le mie finestre: se mi affacciavo, ero una puttana. Un giorno mi ha quasi ammazzata davanti a loro. Quando mi sono svegliata nel sangue la mia bambina mi ha detto: mamma, lasciamo quest’inferno e io sono venuta qui». Rodina non ha voluto che cambiassi il suo nome, né ha voluto coprirsi il volto, «per dire alle donne dell’Albania che vinceremo solo battendo la paura. Parlate, vi prego».
Arriva il capitano della nave delle donne. È Savim Arbanà, scrittrice dai capelli rossi come la mantella di un cardinale: «Ormai siamo un network di donne invincibili: associazioni, club e volontarie. Dopo 50 anni di orrore sotto il comunismo, abbiamo scelto di essere liberi. La libertà in questo paese ha un prezzo alto: la violenza, l’analfabetismo, la fame. Ma ce la faremo. L’Albania di oggi non è ancora quella che sogniamo per domani, ma permetteteci di conquistarci i nostri sogni e ingoiate i vostri pregiudizi sull’immigrazione degli albanesi tutti assassini».
Savim è un fiume in piena: «Perché non parlate mai della nostra immigrazione selvaggia? Sì, quella dei poveracci montanari del nord. Solo qualche anno fa Tirana aveva un quinto dei cittadini di oggi. Adesso siamo invasi da noi stessi. Li chiamano “i ceceni”. Come i selvaggi, come i barbari.Vengono da paesi sperduti fra le montagne e si portano dietro tradizioni e leggi medioevali». È vero che una donna del nord perseguitata dal marito orco ha vissuto un mese nella foresta con i figli mangiando terra, radici e scarafaggi? «Verissimo. E sa qual è stata la grande concessione del giudice? Il divorzio».
Tirana dei negozi al Block, quartiere di moda, è una nuvola di vetrine: stivali di porporina, pizzi, jeans e baretti fitti di giovani che fumano. Al parco però certi bambini sono gettati nudi sull’erba. Come stracci si vendono ai farabutti stranieri. Insieme a loro batte un ragazzo rom. Mai visto un travestito più drammatico: fondotinta sbavato sulla barba lunga e la parrucca di stoppa delle bambole. Piange. Non ha casa né altro: «Siamo la feccia di questa terra: picchiati, derisi, ammazzati. A uno come me hanno staccato la testa di netto. Aveva solo 16 anni. Ci aiuti: farei qualunque lavoro. Ho fame».
Violenza e fame si incontrano anche nei quartieri spazzatura di Tirana. Al Kinostudio, vecchia Cinecittà del comunismo, in un palazzo fogna che si arrampica per cinque piani incontro Syana. Questa madre di famiglia sta per diventare cieca. È nel panico: «Se perdo gli occhi, chi penserà alla casa? Chi ai figli?». Non è l’unica disperata.
Nell’accampamento rom raccontano che un piccolino è stato divorato dai topi come
un pezzo di formaggio vecchio. Dentro la baracca di latta quattro bambine rom coi capelli a nido di rondine ci accolgono festanti. I bambini guardano alla vita. Non così il padre, tossicodipendente: racconta che nell’incendio della sua baracca la quinta figlia è morta bruciata, carbonizzata. Ma è una menzogna.
I bambini rom, quasi mai iscritti all’anagrafe, sono ombre pronte per essere vendute senza lasciare traccia. Per questo i volontari di Save the children e quelli delle associazioni partner con sede a Tirana lavorano perché i figli dei poveri siano iscritti all’anagrafe come tutti gli altri bambini. Ma anche portati a scuola, curati e nutriti. «È l’unico modo per aprire la porta della vita a questi piccoli sfortunati» dice Klara Dajsi, una delle volontarie. «La scuola fa di questi bambini esseri liberi: dal dolore e dalla miseria».

Ci sono donne che per vivere libere in Albania hanno dovuto rinunciare a se stesse. Vendere il loro destino. Diventare uomo, diventare «burnesh», cioè vergine giurata. Lo vuole una tradizione incantata delle montagne fra il Kosovo e l’Albania che chiede a certe donne castità infinita per conquistarsi l’onore di essere maschio. Di vestirsi, di armarsi, di combattere, ma anche di fumare e di bere alcol, lussi proibiti alle donne.
Come Qamile Stema, quasi 90 anni. Per arrivare da lei nel villaggio di sei case di Barcalesh, dopo la città di montagna di Kruya, bisogna camminare sulla mulattiera a picco sulle rocce bianche. Sulle cime dei monti azzurri volano le aquile: è come assistere al primo giorno della creazione. Si arriva al villaggio di notte e purtroppo Qamile è malata. Ma un vero uomo non conosce la febbre. Così quel folletto con il cappellino bianco e l’orologio nel taschino offre quel poco che ha. Sulla sua faccia le rughe disegnano una vita dove la fusione dei sessi è perfetta e inquietante. Forse nemmeno lei sa più chi è. «Mia madre ha avuto nove figlie. Io ero l’ultima e volevo rimanere a casa con lei» racconta sorseggiando rakja, la grappa locale. «Ma una donna non sposata era la vergogna. Così una mattina ho giurato verginità e mi sono trasformata in un uomo. Come un vero guerriero ho fumato, ho imparato a usare le armi, ho fatto paura agli ingiusti. Non ho mai ucciso, però, questo no».

Qamile Stema, 89 anni, una delle vergini giurate,le «donne-uomo»,
che con la castità perenne conquistano il diritto di comportarsi come i maschi.

Donne prigioniere della tradizione, figlia delle viscere di questa terra e donne libere di prendersi il successo. L’Albania è un paese dalle mille facce. Nello studio televisivo di Top Chanel, Rudina Xhunga, giovane stella del giornalismo televisivo albanese, ospita in questa sua puntata di Shqip Arlinda Hovi Dudaj, famosa e bellissima editrice, e Dalina Buzi, padrona e direttore (così si fa in Albania) di Anabel, il mensile femminile più venduto. Incredibile! Se non fossimo a Tirana, sembrerebbe di essere dentro uno studio a Roma o a Milano. Tema: i nuovi talenti dell’editoria italiana, Paolo Giordano e Fabio Volo. Insieme alla fame di nuova scrittura, si parla di Roberto Saviano e di Daria Bignardi, della Mondadori e della Bompiani. La trasmissione è interessante, colta e attraente. Giornalismo eccellente che scopre per l’Italia un’amorosa e struggente conoscenza.
«L’Italia è il nostro specchio, il desiderio e il modello» dice Rudina. «È una vicinanza che sentiamo profondamente senza molta corrispondenza da parte vostra». La giornalista sa quello che dice: «La crisi dell’Albania non è solo povertà, è crisi d’identità, è dolore dell’esistenza, è l’impotenza davanti a orrori ignobili».
Le donne salveranno l’Albania? «Le donne sono l’Albania» risponde. «Ma le nostre donne politiche fanno ancora i ventriloqui dei maschi di potere. Quando parleranno come farebbero con i loro figli o con gli amanti, l’Albania avrà vinto la sua scommessa. Vuole sapere di donne? Vada dal sindaco di Tirana. Lui che è un vero uomo ha voluto la sua municipalità solo al femminile». Attraverso piazza Skanderbeg, dribblo il Teatro dell’Opera ed ecco il municipio. Il pittore Edi Rama, oggi sindaco, quasi 2 metri di bell’uomo, ha voluto la sua Tirana colorata come una città sudamericana. Per questo ha fatto dipingere di rosso e arancione i palazzi troppo mesti della capitale. Per questo ha disegnato un viale alberato su un’intera fila di case orfane di verde. Il suo ufficio è quello dell’uomo che non ha paura di restare bambino: pennarelli colorati dovunque, icone pregiate, ma anche fotografie di cuccioli. 


Tirana disegnata su pareti e colonne. «Non so quante donne lavorano con me, ho perso il conto. Le donne sono esseri del fare e non del dire. Quando una delle nostre diventerà primo ministro, ce l’avremo fatta».

Stella Pende

martedì 9 maggio 2017

Lettera di un uomo


Mi chiamo Edoardo, ho 32 anni e faccio il benzinaio
Mia madre Enza era professoressa di fisica e mio padre Ugo un avvocato con un hobby speciale che ci stroncato la vita. Giocava. Poker, Gin Ramin e poi scommesse sui cavalli, sui pugili e sui topi. Una malattia terminale. Mia madre ha venduto le spille della nonna e pagato strozzini killer. Invano. 
Quando avevo 13 anni Ugo ha perso il lavoro perché  affondato in una cattiva depressione. Mia madre lavorava come una schiava facendo ripetizioni fino all’alba. Unica consolazione: i miei successi a scuola. Così, mentre Ugo passava da un elettrochoc all’altro, arrivo alla fine del liceo con un sogno. Avrei fatto l’avvocato. La mia rabbia era diventata fame di giustizia. Per tutti i giusti, spesso troppo umiliati da un Italia che premia il mascalzone furbo, come scriveva Marco. 
Finito il liceo per pagarmi l’Università ho fatto il commesso e pure lo sputa fuoco ai semafori. Ma la laurea è stata una festa. Ugo pareva un padre normale. Mia madre piangeva felice. Gli amici stappavano il Ferrari. Il dopo, però, è stato tutto un rotolare nel dolore e nel fango. Un cancro al pancreas mi ha portato via la mamma in 3 mesi. Ugo senza di lei ha perso 22 chili. Io ho perso il bene più grande. Intanto cercavo lavoro. Annunci, Internet, curriculum a studi legali che, non essendo il cugino di Tronchetti Provera, mi rimbalzavano. Finalmente un avvocato di Novara mi accoglie. “Non ti posso pagare troppo, ma cerca di capire l’andazzo per sei mesi  e poi vediamo”
Ho capito molto bene l’andazzo della fotocopiatrice e mi sono piegato a qualunque bassezza per settecento euro al mese. Ma non partecipando a riunioni né a cause non potevo brillare. 
Fatalmente: mi dispiace. Non ce la faccio ad assumerti. Grazie per la disponibilità.
Insomma, come fanno con molti precari, mi avevano usato come fattorino e poi un calcio nel deretano. Quello è stato il primo pugno della vita. 
Ne sono seguiti troppi. A 28 anni ero pieno di lividi nell’anima. Di no si muore, ha ragione Marco. La verità è che se vuoi lavorare devi essere bravo, ma anche raccomandato. E poi a me è mancato quel pizzico di culo che non guasta. Ugo stava male. In Italia ti aiutano se hai il cancro terminale. Se hai una malattia da ricchi, come la depressione, e sei pure povero, muori da solo. Tornavo di sera e lo trovavo con la bava alla bocca. Allora fingevo malattie che mi costavano regolarmente l’allontanamento dai lavoretti trovati. Inutile raccogliere ogni dettaglio della mia Odissea. Forse è vero: a 25 anni punti al massimo e ogni giorno ti ritrovi a patteggiare col minimo. 
In principio ti intestardisci: non accetti briciole dalla vita. Non permetti che la tua giovinezza venga umiliata. Poi cominci a raccontartela su’. Ti dici: finché c’è Ugo accetto di fare il tassista a cottimo poi diventerò Perry Mason. Per ora meglio fare il commesso dal ferramenta perché  vai a casa a mangiare. Capita perfino che tu faccia il benzinaio a ore per andare da lui con i guanti per nascondere le mani accartocciate dal gelo. 

La fine di Marco è lo specchio, banale ma lo è, della disfatta di tanti giovani non più giovanissimi come noi. Perché non ci sono solo sette anni tra i 25 e i 32 di un ragazzo. Ma venti. A 25, quando finisci l’Università sei una giovane pianta che aspetta di fiorire. A 32 anni, dopo decine di sconfitte, ti fanno sentire un tronco secco. La colpa di chi è? Di un paese che non offre futuro ai ragazzi, di una società, come scrive quel nostro fratello , che ti ruba la felicità? Anche. Per questo non ho dormito davanti a quella lettera.  Ma alla fine mi sono detto: perché non ho incontrato Marco? Perché non ho potuto parlargli, abbracciarlo, dividere umiliazioni e sogni spezzati? Ma soprattutto ho rimpianto di non avergli raccontato la mia lotta quotidiana per non cancellare il futuro. Perché uno come lui, che scriveva come Pasolini, che soffriva come le anime grandi, doveva incontrare, prima o poi la giustizia. Nessuno ci può costringere a sopravvivere. Ma noi dobbiamo pretendere di vivere. Perché è il nostro diritto. Perché a 30 anni si ha il diritto a un miracolo. E adesso che Marco se n’è andato per noi, non ci consoliamo nelle dichiarazioni dei presidenti di regioni e di sindacati. 

Non ci arrendiamo. Gli italiani non sono solo maneggioni. 
Un’Italia diversa è possibile? Io non smetto di crederci. 
E domani, con i guanti, andrò al mio trentaduesimo colloquio nello studio dell’avvocato X senza guardare indietro a quel ragazzo infelice che non voglio essere.

Tommy e gli altri


È di  questi giorni il film di Gianluca Nicoletti sulla storia d’amore tra lui e Tommaso, figlio autistico, mi dicono a Grazia “vorremmo che tu ne scrivessi"
Sono felice per Luca. Ma io quella storia d’amore l’ho già raccontata più di una volta. Nicoletti è un amico di sempre, Tommy l’ho visto col pannolone, cosa potrò dire di più e ancora? 
E invece no. Dopo aver visto Tommy e gli altri, viaggio di Luca dentro le vite di altri ragazzi come Tommy e dei loro eroici genitori ho scoperto che la commozione che ti si attacca addosso ascoltando quelle voci, guardando quegli occhi innocenti e persi, può crescere sempre più intensa, immensa. Infinita. Ho scoperto che quel mio amico, funambolo di radio e televisioni, è riuscito finalmente a colpire duramente l’indifferenza della gente e a fare dell’autismo, malattia silenziosa e nascosta, un linguaggio universale che milioni di bambini nel mondo parlano e che milioni di genitori devono imparare nel dolore. 
Gianluca Nicoletti e sua moglie Natalia un figlio autistico non se lo aspettavano. Avevano già Filippo, sapiente grillo parlante sin dai primi vagiti e quando  è arrivato Tommy, riccioli biondi,occhi celestiali, se lo pavoneggiavano fieri sulla spiaggia di Santa Margherita di Pula dove facevamo insieme le vacanze. Proprio quella che arriva nel film a sorpresa e che ha rischiato di spaccarmi il cuore per l’ emozione. Ma Tommy non parlava. E tutti, come si fa in questi casi, offrivano le loro considerazioni: Einstein ha cominciato a parlare a 4 anni, Leonardo a 12 e così via. Poi è arrivata la vera diagnosi. Tommy era autistico. Allora Gianluca e Natalia hanno cambiato spiaggia. E vita. Lui riuscivo a vederlo di fretta in un bar o a casa di Barbara Alberti. Di Tommy non si parlava. Ma più Tommy cresceva e più Luca capiva che il silenzio era la sua condanna e di tanti bambini come lui. Così ha deciso: avrebbe fatto dell’autismo e dei suoi figli il laboratorio d’amore della sua vita. 
Il film comincia con la festa dei 18 anni di Tommy. Bambini che saltellano come marzianini appena atterrati sulla terra, “stralunati” come li chiama lui. Padri e madri che brindano. Ma Luca ricorda “Solo ai bambini si permette di essere autistici. Dunque da oggi Tommy non è più malato ma condannato a una guarigione forzata che, quando non ci saremo più, permetterà ai normali di scaraventarlo nella discarica dei malati mentali." Cercare una via di scampo per il futuro del figlio. E’ questa l’ossessione dolorosa che abita dentro  Giovanni, Rossana, Benedetta e gli genitori che Nicoletti incontra nel suo viaggio nell’Italia dell’autismo.

Stella Pende

I "cuccioli" del Califfato

Nel ristorante davanti alla Gare du Nord, stazione dei treni di Parigi, il via vai chiassoso dei viaggiatori ingoia il dolore di Hélene. La donna, gli occhi fitti di pianto , vince il suo pudore e racconta una storia da brividi. I terroristi dello Stato Islamico, che da anni con atroci delitti,occupano e violentano città della Siria e dell’Iraq, le hanno portato via suo figlio Raphael, adescandolo su Internet e convincendolo a partire per Raqqa, dove è morto sotto le bombe. 
Mi hanno strappato il bene più grande e adesso hanno in man anche la mia nipotina di 3 anni. Halima è nata dall’unione fra Raphael e una combattente siriana. Ma adesso come farò a salvarla dagli assassini della bandiera nera?" 
Non si dà pace: “So che verrà allevata dentro la follia fanatica di quei pazzi assassini. I bambini assorbono amore e odio. Basteranno pochi anni di indottrinamento e lei diventerà la loro marionetta”
La guardo. Questa donna mi ricorda tanto le abuelas (le nonne) dei desaparecidos argentini. Ma non è facile consolarla. Perché Hélene scopre una realtà agghiacciante e oggi sempre più vera: quella dei figli del Califfato. Da quando l’Isis proclama la sua nascita nel 2014 centinaia di bambini occidentali sono rimasti prigionieri nelle terre dell’Isis. Come è accaduto nel caso di Raphael, si tratta soprattutto di bambini nati dall’unione di combattenti stranieri ( ragazzi o ragazze europei che adescati da Daesh partono per arruolarsi nelle loro truppe) con miliziani o miliziane della bandiera nera. 
Oppure, dramma forse ancor più cattivo,figli nati in Italia o in Francia, in Inghilterra come in Svezia, che, strappati alle famiglie e alla loro terra, vengono trascinati da genitori indottrinati da imam e cacciatori di anime, dentro mondi travolti dalla legge della violenza. In Italia un esempio eclatante: quello di Alice Brignoli che scappa dalla Brianza con i tre figli e poi spalma fiera su Internet le loro foto in tuta mimetica. Didascalie firmate dalla signora in persona: “questi sono i nostri figli e il nostro futuro infrangibile”.  
La verità è che per tutti questi neo arruolati la vita non esiste più. Il signor Halmer, padre svedese di Gotheborg, confessa che la moglie, convertita all’Islam estremo, ha rapito i loro due figli, 5 e 7 anni, per scappare a Raqqa. 
"Non ho più avuto notizie per un mese poi, rischiando la vita, la mia bambina è riuscita a telefonarmi. Papà vieni a prendermi: ho paura della guerra e anche degli amici cattivi della mamma! Diceva piangendo. Le ho detto: ci sono io amore vedrai che tutto finirà, ma lei urlava sempre di più: in classe mi chiamano Fatima e mi fanno solo pregare Allah, mentre i maschi montano e rimontano fucili ”. Il signor Halmer non ha più sentito la voce dei suoi figli. La polizia svedese ha rintracciato la loro presenza seguendo le tracce del telefonino: i bambini si trovavano in un villaggio siriano a 100 chilometri dal confine turco. Raggiungerli vorrebbe dire essere ucciso. Una minaccia che non ha fermato Almir Berisha. 
“Non possono più ammazzare nessuno: io sono già morto”. E’ nella sua casa vicino a Lecco che quest’uomo dal cuore schiantato mi racconta la fuga dall’Italia verso Aleppo di sua moglie Valbona ,infatuata di un famoso terrorista serbo. 
“Ha abbandonato me e due figlie per scappare col nostro più piccolo e raggiungere quel mascalzone con il quale chattava in Rete. Ho fatto di tutto per ritrovarlo” mi dice ancora "Sono entrato 2 volte in Siria pagando migliaia di euro a disgraziati  sempre scomparsi. Ho attraversato da solo interi villaggi siriani minati dal terrore. E ogni volta dicevano di aver visto il mio bambino fino a poco prima. Invano”
Guardo quest’uomo con la testa fra le mani. Deve essere terribile seguire l’ombra di un figlio e vederla sempre svanire prima di toccarla. “Vivono in mezzo al sangue e alla morte. Li crescono educandoli alla violenza finché non compiono dieci anni, poi li mandano nei campi di addestramento. Ormai usano i bambini come scudi umanima soprattutto come kamikaze. Sì, come bombe bonzai. 
Alla fine del 2016 un rapporto dell’Unicef diceva che almeno 27 piccoli si erano fatti esplodere in luoghi strategici. Ma quanti sono ora??? Un bambino non crede mai di poter morire davvero. Ma se il piccolo ha paura, se capisce, gli mettono addosso un esplosivo azionabile a distanza e lo fanno saltare in aria quando e dove vogliono. 
Bambini dell’Isis. “Leoncini del califfato” come li descrive fiero Rumiyah, il settimanale del terrore islamico. E  oggi quando kurdi e iracheni liberano genti e terre dall’Isis ,ecco che decine di piccoli innocenti vengono arruolati come combattenti per difendere le sue postazioni. Bambini usati come carne da macello a Mosul ovest, dove oggi infuria la grande battaglia. Ma anche come spie, come sguatteri, come cuochi. Senza parlare degli abusi e degli altri orrori. La verità è che se l’Isis morirà a Mosul, quel mostro rinascerà  sempre come un Alien dai mille tentacoli in quelle terre sfortunate. E i cuccioli del califfato saranno per i pazzi di Allah la garanzia della continuità di quel progetto perverso che fa dell’Islam una vergogna.

Stella Pende

Confessione Reporter - Puntata 4 Gennaio 2017

Deradicalizzazione: cosa significa? Parliamo di un fenomeno in espansione in Europa. Centri che ospitano ragazzi ex jihadisti e li aiutano a tornare alla vita. 

Nella seconda parte ci occupiamo di un altro centro importante a Milano: Casa Arché. Qui vengono ospitate mamme e bambini che in difficoltà.

Confessione Reporter - Puntata 30 Dicembre 2016

L'Italia e il terrorismo...Perché non ci hanno ancora colpito? Reportage da uno dei Paesi d'Europa che riesce a fronteggiare il rischio degli attacchi dell'Isis. 

E poi restiamo a Roma, dove la Comunità di Sant'Egidio ed Enel Cuore realizzano un progetto molto speciale per i nonni della capitale.

Confessione Reporter - Puntata 19 Dicembre 2016

In questa puntata vi portiamo in Francia, uno dei Paesi europei più colpiti dal terrorismo e con un numero altissimo di foreing Fighters. Ascoltiamo le storie di madri disperate che hanno perduto i loro figli in Siria, arruolati nell'esercito dell'Isis. Ci confrontiamo con professori e imam per capire quanto difficile è e sarà la lotta al califfato nero. 

Nella seconda parte, invece, andiamo in Siria. In questo Paese distrutto dalla guerra civile, UNHCR ed Enel Cuore danno una speranza ai ragazzi rifugiati che non hanno più casa né famiglia. Li aiutano a studiare, a realizzare i loro sogni nonostante le bombe.

Confessione Reporter - Puntata 12 Dicembre 2016

Donne e guerra. In questo reportage ci occupiamo delle coraggiose femmine peshmerga arruolate nell'esercito curdo. A Erbil, in Iraq, entriamo nelle loro vite tra armi e bombe. E poi Dynamo Camp, una storia di solidarietà e amore tra le colline di Pistoia. Qui ecco il camp della felicità, dove bambini e ragazzi disabili possono trascorrere momenti sereni al fianco di operatori, sport e giochi. 

Confessione Reporter - Puntata 1 Luglio 2016

Viaggio in Svezia, patria di foreing fighter e di giovani che sempre più spesso si rifugiano qui per studiare la loro guerra all'Europa. Incontriamo terroristi, esperti, cittadini pronti a raccontarci come questo paese sta cambiando e come si prepara a fronteggiare il pericolo terrorismo.



domenica 7 maggio 2017

Confessione Reporter - Puntata 6 Giungo 2016

Dopo la morte di Giulio Regeni vogliamo parlare di altre morti ingiuste che hanno sconvolto l'Italia. Il caso del fotoreporter Andy Rocchelli e quello di Simone Renda.

Ucraina e Messico, due paesi in guerra con loro stessi, che hanno distrutto la vita di due famiglie.


venerdì 5 maggio 2017

Confessione Reporter - Puntata 4 Gennaio 2016: L'amore a 70 anni

l'amour: l'amore della terza età. Come cambia il rapporto col sesso per gli over 70.

Solidarietà a Treviso: nella cooperativa che offre casa e lavoro ai ragazzi disabili.





















giovedì 4 maggio 2017

Confessione Reporter - Puntata 28 Dicembre 2015: Le schiave del sesso

Viaggio in Mauritania dove centinaia di donne sono schiave di ricchi imprenditori
Voci di madri e bambine ferite dalla vita.

Piccoli e grandi angeli: nel mondo dei ragazzi down

mercoledì 3 maggio 2017

Confessione Reporter - Puntata 21 Dicembre 2015: Madri per la vita

"l'isis ci ha rubato i nostri figli". Storie di madri-coraggio che hanno perso i loro ragazzi in Siria. Ma cosa spinge sempre più giovani a convertirsi all'islam? e perché la maggior parte di loro sono pronti a morire?

Nella fabbrica del cioccolato
Ecco come nel carcere Ferrante Aporti di Torino i ragazzi imparano un mestiere.


martedì 2 maggio 2017

Confessione Reporter - Puntata 14 Dicembre 2015: L'altro terrorismo

Nigeria e Niger: la strage di civili che Boko Haram compie ogni giorno. 270 studentesse rapite solo nel 2014. Ecco come si vive nell'inferno degli uomini neri.

Alzheimer café: dove i nonni malati possono trovare amici e tanto amore.